Perchè ripartire dall’indebitamento

La situazione nelle campagne italiane: perché risolvere i problemi dell’indebitamento per rilanciare la riforma del comparto

Documento di Altragricoltura (2007)

Dal 2000 ad oggi, (2007) secondo l’Istat, l’Italia ha perso oltre il 20% del suo tessuto produttivo agricolo e zootecnico. Il venir meno del numero delle aziende produttive non si accompagna con una “riorganizzazione positiva” della capacità produttiva del Paese: al contrario, tutti gli indicatori la danno in contrazione mentre aumentano fortemente gli squilibri fra la capacità di “fare reddito” della parte produttiva e  quella degli altri soggetti che operano nell’agroalimentare, che comunque rimane il principale comparto produttivo del Paese.
Con il Paese e l’Europa attraversati a pieno dalla crisi internazionale del modello della globalizzazione, questa condizione, che è maturata nel corso degli ultimi due decenni, esplode fino a diventare sempre più emergenza nazionale. Sono a rischio parti strategiche ed importanti dell’intero tessuto produttivo agrozootecnico del Paese e, se non si interviene con una forte capacità di riforma del sistema, corriamo seriamente il rischio di svuotare l’agroalimentare, grande patrimonio del sistema nazionale, riducendolo a marchi di prodotto in cui sempre meno vi è la materia prima italiana, il lavoro e i saperi necessari a realizzarlo.

I NUMERI DELLA CRISI ITALIANA

A febbraio rispetto allo scorso anno (dati Istat ed ISMEA), si è verificato un preoccupante calo del 10,9% nei prezzi alla produzione dei prodotti agricoli, ma i prezzi degli alimentari al consumo sono cresciuti del 3,5 per cento nello stesso arco di tempo. L’andamento negativo coinvolge sia le produzioni vegetali (-16,3) che  quelle zootecniche (-3,3 per cento).
Per i cereali i prezzi alla produzione hanno avuto addirittura un crollo del 43 per cento rispetto allo scorso anno che tuttavia non si è trasferito al consumo dove la pasta è aumentata del 16,5 per cento e il pane del 2,3 per cento.
Così, pure, vini e oli di oliva hanno registrato drastiche riduzioni rispettivamente, del 24,3 per cento e del 24,2 per cento. Così tutti i prodotti derivati dall’allevamento accusano una flessione dei prezzi alla produzione a partire dal latte e derivati (- 9,8 per cento), ad eccezione del pollame (+2,3 per cento).
Al contrario, i prezzi degli agroalimentari al consumo sono aumentati  in media del 5,4 (ovvero il  2,2%  in più rispetto alla media del 3,3% dell’inflazione nello stesso periodo con un trend  ad aumentare nel 2009) nonostante il forte calo dei prezzi delle materie prime agricole.
Pur in un quadro di riferimento europeo omogeneo, in Italia l’aumento dei prezzi al consumo (dunque l’indicatore della forbice fra  prezzi alla produzione ed al consumo) è significativamente più alta rispetto agli altri paesi europei.
Secondo i dati comunicati dall’Istat nel corso dell’audizione al Senato nel gennaio 2009, in particolare, il tasso tendenziale di crescita dei prezzi degli alimenti e’ risultato infatti pari al 3,7 per cento in Italia, contro il 2,3 per cento della Francia, l’1,9 per cento della Spagna, l’1 per cento della Germania e il 2,6 per cento nell’Unione Europea a 15.
Il quadro della distribuzione del valore economico della spesa degli italiani è tale per cui per ogni Euro di spesa 60 centesimi vanno alla distribuzione commerciale, 23 all’industria alimentare e solo 17 centesimi agli agricoltori.
Nel frattempo il numero delle aziende agricole italiane è costantemente in diminuzione. Nel 2008 (ultimo dato disponibile) avevamo circa 1,7 milioni di aziende agricole; ne abbiamo perso il 2,8% rispetto al 2007 (-4,6% al Centro, -3,2% al Sud e -0,9% al Nord). La stima fra il 2000 ed il 2013 è la perdita (secondo questo trend) di un numero fra il 30% ed il 40% delle aziende agricole.
La tendenza a restituire numeri negativi nei valori di rilevamento è costante. Per esempio fra il 2005 ed il 2006 l’occupazione, la produzione e il valore aggiunto si sono ridotti rispettivamente del 3,5%, dell’1,8% e del 3,4% (ultimi dati certi ISTAT).
Anche i dati dell’import-export ci dicono di una capacità produttiva sempre più svuotata e di una tendenza ad occupare gli spazi di mercato con i marchi di prodotti tipici italiani in cui vi è sempre meno il frutto del lavoro delle nostre aziende agricole. L’export dei prodotti di agricoltura, silvicoltura e pesca  nel dicembre 2008 ha registrato verso i Pesi Ue un calo del 10,4% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e un -10,8% complessivo; nel frattempo aumentavano i valori dell’export dell’agroalimentare (+6,1%).
Se si osservano con attenzione i dati specifici si rileva come fra gli aumenti dell’esportazione dei prodotti del “made in Italy”,  la migliore performance positiva nel 2008 la segnata la pasta (+ 28 per cento);  peccato che nella pasta dei marchi “italiani” ci sia sempre il nostro grano che, al contrario, viene importato per la lavorazione da Paesi extraeuropei in modo sempre più massiccio mentre da noi si contraggono fino al 40% le SAU a grano.

LA NATURA DELLA CRISI ITALIANA

La crisi dell’agricoltura italiana ha alcune caratteristiche precise, che la rendono pericolosissima non solo per l’ambito rurale ma per la capacità di incidere profondamente nella tenuta economica e sociale dell’intero Sistema Paese.

1) E’ una crisi strutturale e non certo congiunturale. Se si osservano tutti gli indicatori degli ultimi venti anni il trend alla contrazione della capacità produttiva è sempre più accelerato e costante. Fino alla fine degli anni 80, per tutto il dopoguerra, le crisi in agricoltura erano legate agli andamenti di mercato, al gioco speculativo fra la domanda ed offerta, in cui incidevano come sempre i cicli naturali e delle stagioni agrarie, e, dunque si alternavano fasi espansive e recessive dei redditi e dei fattori generali d’impresa. La natura di questa lunga crisi sempre più strutturale è, in realtà, indotta dal profondo mutamento che le scelte politiche ed istituzionali stanno determinando nel ruolo stesso dell’agricoltura in rapporto alla dinamica sociale ed all’insieme dello sviluppo delle forze produttive ed economiche. Se dovesse permanere l’attuale modello dominante agroalimentare basato sul predominio della commercializzazione, della finanziarizzazione, del controllo delle filiere da parte delle multinazionali speculative, la natura di questa crisi permarrebbe con le sue caratteristiche giacché si nutre della competizione al ribasso fra i produttori, sulla prevalenza del commercio internazionale, sulla privatizzazione delle risorse e dei servizi considerando i prodotti agricoli come “materie prime” capaci di indurre valore aggiunto economico più per la speculazione finanziaria e commerciale che per la produzione.

2) E’ una crisi che riguarda tutto il Paese, sono a rischio le aree dell’agricoltura forte, dunque è compromessa la nostra “Sovranità”. Sono, in effetti, in sofferenza le aree ed i settori produttivi di tutte le aree produttive dell’agricoltura specializzata e “forte” dell’intero Paese. Ovvero di quelle aree e settori dove nei decenni scorsi sono stati fatti da parte degli agricoltori grandi investimenti in ammodernamento, specializzazione, qualificazione di processo e di prodotto sulla base dell’ipotesi che la liberalizzazione e la globalizzazione dei mercati avrebbero portato significativi vantaggi a quanti si sarebbero fatti trovare pronti. In effetti le nostre aziende (nel Sud come nel Nord Italia) hanno conosciuto fra gli anni ’80 e ’90 un impulso fra i più straordinari d’Europa all’ammodernamento d’impresa. La realtà ci dice che qualsiasi investimento sia stato fatto in questi ultimi decenni dalle aziende agricole italiane è generalmente non remunerato dagli andamenti di mercato. Le aziende, dunque, avendo investito grandi risorse garantite dai patrimoni famigliari, si trovano in una generale condizione di indebitamento e sovraesposizione finanziaria. Condizione, questa, comune a tutte le aree del Paese dell’agricoltuta forte e specializzata; Nel Nord come nel Mezzogiorno ed in tutti i settori dove gli investimenti sono stati significativi e dove più gli agricoltori sono stati espropriati del controllo sulla commercializzazione come, soprattutto, nelle filiere dell’allevamento e nella serriculrua.

3) E’ una crisi funzionale ed utile agli interessi speculativi, contro il lavoro e contro la Sovranità Alimentare del Paese. Non è, evidentemente, una crisi in cui tutti perdono ma, al contrario, il suo estendersi, approfondirsi e svilupparsi nel tempo è funzionale al fatto che gli interessi speculativi di chi controlla le filiere produttive e i cicli economici possano proliferare ed ingrassare. Quello che oggi è a rischio è il lavoro e la stessa sopravvivenza della funzione produttiva dell’azienda agricola italiana. Essa è, in realtà, sempre meno in grado di determinare le funzioni e le variabili della produzione, sempre più ostaggio dei veri padroni delle filiere specializzate in cui è costretta ad operare, sempre più simile a un “lavoratore per conto”, un lavoratore eterodiretto ed esternalizzato che, senza sapere cosa avviene prima o dopo, compie solo un piccolo passaggio nel ciclo di produzione il cui controllo è completamente nelle mani di altri.  In questa perdita di valore e funzione sociale ed economica del ruolo dell’azienda agricola, la competizione di prezzo sui prodotti finisce per lo scaricarsi inevitabilmente sul lavoro, la sua qualità e i diritti (sia dei lavoratori dipendenti sia dello stesso agricoltore che, spesso, regge la sua possibilità di reddito solo sull’autosfruttamento famigliare). Così, la produzione agricola perde di funzione nel territorio mentre gli scaffali dei supermercati si riempiono di cibi ed alimenti prodotti altrove, dove, cioè, sia stato più conveniente produrli. È l’intero Paese che diventa più povero, dipendente e meno sovrano, mentre le aziende agricole chiudono. Il perdurare della crisi e le sue caratteristiche strutturali sono, dunque, funzionali al mantenimento del controllo dei cicli economici in poche mani mentre la sua soluzione ne metterebbe in discussione gli assetti. 

4) E’ una crisi in cui il ruolo delle istituzioni è indebolito ed è lasciata alle banche il compito di operare una selezione mortale. Oggi è a rischio di chiusura proprio quella parte di aziende che verso la fine degli anni ’80 ha fatto gli investimenti sulla base del convincimento che l’apertura e la liberalizzazione dei mercati avrebbe portato una fase espansiva. Le aziende agricole delle aree produttive “forti” hanno realizzato grandi investimenti per realizzare una massiccia iniziativa di “ammodernamento” delle funzioni produttive dell’azienda e farsi trovare pronte a quello che era stato garantito come l’appuntamento positivo e decisivo: la globalizzazione del  settore agroalimentare. Così non è stato e non è. In realtà praticamente qualsiasi investimento realizzato in agricoltura (sia sul processo che sul prodotto) non viene remunerato dalla gestione dell’attività agricola. Le aziende agricole italiane lavorano, generalmente, in perdita e sottocosto da almeno un decennio  senza più riuscire a remunerare gli investimenti fatti nei decenni scorsi oltre che la stessa attività di gestione corrente. L’indebitamento dell’azienda agricola italiana ha, dunque, motivazioni istituzionali legati alle scelte di sistema operate e che si sono rilevate incapaci di prefigurare gli effetti che la fase economica internazionale avrebbe portato impattando il sistema produttivo nazionale che ha “storicamente” caratteristiche particolari nello stesso scenario europeo. Solo per citare un dato, in Sardegna, su 67.000 attualmente esistenti stimiamo che almeno 30.000 abbiano procedure esecutive e forzose di varia natura in corso. Quando i numeri sono questi il problema non riguarda più la capacità della singola azienda di fare impresa ma, al contrario, investe direttamente le responsabilità del sistema e del quadro di scelte sociali ed istituzionali in cui l’agricoltura è costretta. Di fronte a questo quadro la classe politica e di governo del Paese (ovvero quella che ha governato negli ultimi quindici, anni di segno politico diverso ma con politiche sociali ed economiche molto simili) sembra non voler dare risposte e non voler vedere la qualità, l’estensione e la dimensione del problema, continuando, nei fatti, ad evitare di misurarsi adeguatamente  con l’inevitabile riforma del sistema agroalimentare italiano. È così, intanto, che il sistema finanziario e bancario, il vero padrone ormai delle terre e delle strutture agricole italiane, finisce per operare la selezione, passando all’incasso dei debiti. La stessa situazione debitoria delle aziende, del resto, è tale che inibisce loro di poter ormai non solo gestire la produzione ma, anche, di poter accedere alle risorse finanziarie assistite per la ristrutturazione aziendale oggi più che mai necessarie per riconvertire le attività verso profili produttivi economicamente praticabili. Siamo al paradosso che nei prossimi anni le Regioni italiane dovranno spendere (almeno sulla carta) una grande quantità di risorse finanziate dall’UE per il cosiddetto Secondo Pilastro della PAC (i Piani di Sviluppo Rurale) e che, se non cambia il quadro normativo di riferimento, non potranno essere spese perché le aziende agricole indebitate non potranno accedere ai finanziamenti ai sensi delle norme di Basilea 2 e delle rigide regole del sistema creditizio. In questo senso l’indebitamento dell’azienda agricola (che ha natura istituzionale e politica essendo stato, peraltro, spesso una grande valvola di consenso sociale e di clientela nelle campagne) è oggi il vero nodo da rimuovere per consentire alle aziende agricole di essere coinvolte da una seria, profonda, inevitabile riforma dal profilo sociale sempre più urgente.
5) È una crisi in cui se la politica non coglie le domande sociali, sono a rischio la tenuta e la coesione sociale. E’ chiaro che  per affrontare le questioni che sono alla base dei nodi della crisi occorre una forte azione di riforma che assuma la vicenda dell’agroalimentare come una priorità per la sua capacità di investire direttamente sia parti decisive delle forze produttive, sia ambiti sociali fra di loro strettamente connessi come quelli delle campagne e delle città unite sia dalla gestione e dalla tutela del territorio  che dalla indissolubile relazione che determina il cibo, la sua qualità e la natura dei diritti che ne discriminano l’accesso. Dopo 25 anni in cui la politica ha arretrato la sua capacità di iniziativa strategica nel settore agroalimentare per lasciare campo alla “libera espressione e concorrenza fra le forze del mercato”, oggi la riassunzione di responsabilità necessaria ad una profonda riforma di sistema richiede, al contrario, una capacità di proposta e di governo che non si intravede. Certo, questa è una condizione della politica che non riguarda solo l’agroalimentare dove la cultura del “cibo merce” che si è imposta come modello dominante altro non è se non l’articolazione della cultura del predominio dell’impresa e del mercato e della mercificazione delle relazioni sociali. Eppure nell’agroalimentare la distanza fra la sensibilità e il consenso sociale attorno alle dinamiche del cibo e della sicurezza alimentare sono, forse, fra le più stridenti e dove potrebbero essere agite con più concretezza le contraddizioni. Le molte crisi di sicurezza alimentare (mucca pazza, vino al metanolo, polli alla diossina, ecc.), la consapevolezza di come l’aumento della disponibilità di cibo sui mercati non risolva i problemi della fame nel mondo, l’aumento dei prezzi al consumo, i disastri ambientali prodotti dalla cattiva gestione delle attività agricole o dalla loro scomparsa nei lavori di cura delle campagne, sono alcuni degli indicatori che segnalano il crescere della consapevolezza sociale dei cittadini attorno alle vicende del cibo e dell’alimentazione. Certo questa consapevolezza procede in maniera contraddittoria e viene ostacolata dalle profonde modifiche nel tessuto sociale e nel suo impoverimento: per quanto cresca la consapevolezza essa deve fare i conti con l’impoverimento economico e con l’appiattimento verso il basso del potere d’acquisto di larghi settori sempre più costretti a guardare agli hard discount per mantenersi. Si può comunque dire che, per quante contraddizioni vivano nella società attorno al cibo, esse non solo non vengono colte dalla politica ma, al contrario, vengono da essa rimosse.

6) È una crisi da cui si può uscire più poveri o più sovrani. Per decenni, nel dopoguerra, si è affermata l’idea nelle campagne di una fase sostanzialmente progressiva, in cui, guardando ai cicli di periodo lungo, si potevano cogliere sostanziali miglioramenti sociali ed economici. Da questa crisi del sistema agroalimentare neoliberista si può uscire in molti modi. Una delle variabili fondamentali per determinare come si uscirà sarà la qualità delle risposte della politica. Potrebbe prevalere l’idea che la battaglia per il recupero della funzione produttiva dell’agricoltura italiana è già persa e secondaria ed, allora, si compirebbe il disegno in corso e si consoliderebbero i poteri speculativi e la rendita improduttiva e l’Italia si avvierebbe ad essere una grande piattaforma commerciale nel pieno del Mediterraneo con i cicli produttivi in mano a chi governa i grandi marchi del “made in Italy” svuotati dal contenuto del lavoro italiano. Potrebbe prevalere un nuovo protagonismo politico determinato dalle spinte sociali ma con risposte egoistiche, di nicchia, corporative in cui piccoli interessi localizzati contratterebbero il proprio destino sociale senza contraddire il quadro generale, perderebbero i consumatori e l’intero Paese. Potrebbe, al contrario, determinarsi una fase in cui le forze democratiche e progressiste, assumendo la proposta della Sovranità Alimentare potrebbero dare sponda e sostenere le istanze sociali e democratiche più avanzate, determinando il quadro e le condizioni per una riforma generale del sistema agroalimentare che ricollochi la produzione, la distribuzione e la trasformazione del cibo nel rapporto con i bisogni sociali e non con gli interessi della speculazione e delle multinazionali.  

COME SI AFFRONTA LA CRISI IN ALTRI PAESI EUROPEI

Sia pure con altri dati e numeri, la situazione italiana è paragonabile, ad ogni modo, a quella di altri Paesi europei in cui l’agricoltura ha ancora un ruolo produttivo importante a segnalare, del resto, che il processo che investe le campagne italiane è il prodotto della omologazione al modello competitivo europeo più generale in cui ha prevalso, negli ultimi venti anni, la scelta di orientare l’economia agroalimentare sempre meno alla produzione agricola, svuotandola del peso del lavoro.
È evidente che gli effetti di queste scelte hanno pesato soprattutto nelle aree di agricoltura di tipo mediterraneo dove l’incidenza del lavoro nelle produzioni è maggiore.
In effetti, in diversi Paesi Europei (soprattutto in quelli dell’agricoltura forte) è aperto, ormai, il confronto su come uscire dalla crisi che attraversa le campagne, ovunque vi sia una presenza agricola significativa.
In Francia, nel mese di ottobre si è tenuta con il concorso delle organizzazioni agricole la “Conferenza nazionale sulla crisi agricola”. Il governo francese a fine si è impegnato a stanziare 250 mil. di € per la fuoriuscita dalla crisi. Le misure previste sono di varia natura, fra queste vanno segnalate:
50 mil. Di € per allevatori di ovini (utilizzo di aiuti comunitari non spesi e aiuti diretti per compensare perdite da crisi sanitarie)
75 mil. di € per miglioramento della liquidità di impresa (accesso agevolato al credito con vantaggi diversificati per gli agricoltori, i giovani agricoltori e il sistema bancario; presa in carico dello stato degli interessi sui prestiti di miglioramento; aiuti ai prestiti di consolidamento del debito; esonero da alcune tasse; assunzione da parte dello Stato di Oneri Contributivi)
4 mil. di € per la proroga all’esonero previdenziale per i giovani agricoltori;
75 mil. di € per la riduzione dei costi energetici delle imprese
Accelerazione del rimborso dell’IVA
Il governo si è impegnato a richiedere misure straordinarie all’UE in diversi settori (fra cui una serie di esoneri per le piccole produzioni agricole conferite alla trasformazione)

Il pressing nei confronti dell’UE del governo francese ha già cominciato a produrre effetti: la Commissione ha iniziato ad autorizzare, se pure in via temporanea, alcuni aiuti di stato n Francia a cominciare dalla concessione diretta di prestiti ad aziende che producono prodotti verdi.

In Grecia, dopo che per oltre un mese una fortissima mobilitazione degli agricoltori ha bloccato le arterie principali di collegamento viario, il Governo Greco ha annunciato l’erogazione di 800 mil. di € in forma di aiuti compensativi allo scopo di sostenere i costi di produzione, l’abbassamento dei prezzi e l’assicurazione dei danni provocati da calamità naturali. Mentre continua la mobilitazione degli agricoltori, il Governo Greco sta contrattando con la commissaria Fisher Boel la modalità delle misure in deroga forte anche dal precedente
che aveva già autorizzato cinque anni or sono una misura straordinaria che, di fatto, ripianava una parte importante della debitoria delle aziende agricole greche
 
In Spagna, si registra una fortissima contrazione del reddito agricolo (-8,5%) e una continua crescita dei costi alla produzione, la chiusura conseguente di numerose aziende soprattutto nel settore zootecnico. Il Governo spagnolo sta discutendo della possibilità di stanziare circa 1 miliardo di € per sostenere la crisi nel settore agricolo.

In Germania, all’interno di una manovra sulla crisi che prevede lo stanziamento fino a due miliardi di € per aiuti al sistema produttivo delle PMI, viene inserito anche il settore agrozootecnico, per almeno quella parte non interessata da altre iniziative già in corso.

Sono, questi, alcuni esempi di come in Europa si stia affrontando la crisi del settore produttivo primario, con misure straordinarie che, riconoscendo la natura pericolosissima della fase per il mantenimento della capacità produttiva, intervengono con urgenza per sostenere le necessità finanziarie del comparto, il calo dei prezzi alla produzione e l’aumento dei costi.
In ognuno di questi Paesi è vivo ed aperto il dibattito sul futuro dell’agricoltura e la funzione produttiva e da più parti si avanza la necessità di rivedere criticamente le linee guida delle scelte strategiche che si sono realizzate da parte dei Governi Nazionali e dalla Commissione Europea in Agricoltura.
Il dibattito dovrà chiarire se non occorra una forte conversione di rotta negli obiettivi strategici ed, in particolare, se sia possibile immaginare l’Europa come un grande mercato di consumo di prodotti alimentari ma non di produzione e di un’agricoltura di speculazione finanziaria e commerciale senza mantenere una forte base di Sovranità Alimentare dei Paesi e del sistema Europeo.
Per intanto in questi Paesi la crisi viene nominata, dichiarata almeno nei fatti ed affrontata, almeno nelle intenzioni, con misure straordinarie.

IN ITALIA: DICHIARARE LA CRISI, ADOTTARE MISURE STRAORDINARIE, AVVIARE LA RIFORMA PER GARANTIRE LA SOVRANITA’ ALIMENTARE

Anche in Italia l’obiettivo non può che essere quello per cui la crisi va dichiarata evitando di continuare a rincorrere le emergenze ed, anche qui, occorrono misure urgenti per scongiurare effetti disastrosi nelle campagne italiane in modo da poter guardare alle azioni di riforma con un tessuto produttivo non compromesso oltre nella sua capacità operativa. Soprattutto nessuno può pensare che si possa risolvere i problemi di un comparto e, peggio di un territorio, senza assumere la generalità dei problemi in campo; non si può pensare, per esempio, di affrontare una delle principali emergenze dell’indebitamento, quello delle quote latte che incide in una ristretta area geografica del paese e solo per una parte dei produttori senza, al tempo stesso, affrontare e dare risposte all’insieme dei soggetti. Il nodo da sciogliere è quello della capacità produttiva generale del Paese e la funzione dell’agricoltura nella sua capacità di contribuire a creare reddito, funzioni sociali positive e tutela della salute e del territorio.
Per questo, il movimento contadino di lotta per la Sovranità Alimentare sta chiedendo  che le istituzioni Regionali ed il Governo Nazionale contribuiscano, ognuno per le proprie responsabilità che sono diverse ed altrettanto decisive, ad un triplice obiettivo:
– scongiurare la chiusura delle aziende agricole e zootecniche;
– recuperare la loro capacità produttiva e di fare reddito
–  avviare una riforma dell’agroalimentare italiano verso la Sovranità Alimentare

LA SCOMMESSA CHE VA VINTA è QUELLA DEL FUTURO PER LE AZIENDE PRODUTTIVE DEL PAESE, UN FUTURO CHE DEVE ANDARE VERSO IL RECUPERO DELLA SOVRANITà ALIMENTARE E CHE Può ESSERE GARANTITO SOLO RIMETTENDO AL CENTRO DELLA RIFORMA DELL’AGROALIMENTARE LA CENTRALITà DEGLI INTERESSI DEI PRODUTTORI E DEI CONSUMATORI.
PER QUESTO, NEL MOMENTO IN CUI MAGGIORE è IL BISOGNO DI RICONVERTIRE LE AZIENDE AGRICOLE VERSO MODELLI AGRICOLI CAPACI DI PRODURRE REDDITO, SALARIO E DI ASSICURARE CIBO DI QUALITà A PREZZI GIUSTI, MAGGIORE è IL BISOGNO DI RISORSE PER LA RIFORMA.
SE NON RIMUOVIAMO LE RAGIONI DELL’INDEBITAMENTO DELLE AZIENDE AGRICOLE, CONTINUEREMMO A TENERE PIOMBO NELLE ALI DEL PiU’ GRANDE PATRIMONIO AGROALIMENTARE PRODUTTIVO MONDIALE

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